Bushi-do

ESSENZA DELL’AZIONE MORALE PARALLELISMO ETICO TRA L’ISTITUTO DELLA FAMIGLIA E IL BUSHIDO - IL FINE DELLA PERSONA UMANA

Legge naturale-luogo d’azione - il do

Il bushi – e il do, senza soffermarci sugli ideogrammi giapponesi, ma solo sul significato intrinseco, sono due gli elementi che si sovrappongono in quanto inscindibili. Il guerriero (bushi) è la persona, l’essere che vive e attraverso l’esercizio delle Virtù Etiche interpreta situazioni, circostanze contingenti e di conseguenza attraverso questa sintesi costruisce una relazione. Il do è il luogo metafisico in cui questa verità di vita, riconducibile alla legge naturale, esercita un diritto naturale in senso aristotelico, ma anche il luogo fisico in cui insiste il percorso, il sentiero che abbiamo davanti e la traccia che lasciamo alle spalle. Quel luogo in cui la giustizia non si esaurisce nella positività della legge umana né in una autodeterminazione assolutistica. Aristotele così presentava il problema: “Nel giusto politico ci sono due parti, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che  sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito”.

Il giusto naturale è quindi il perno fondamentale e originante della giustizia, il basamento ultimo della legittimità politica, ma è comunque insufficiente da solo per ordinare la vita sociale.

“Vi è una legge vera, ragione retta conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna, tale da richiamare con i suoi comandi al dovere, e da distogliere con i suoi divieti dall'agire male... A questa legge non è possibile si tolga valore né è lecito che in qualcosa si deroghi, né essa può essere abrogata; da questa legge non possiamo essere sciolti ad opera del senato o del popolo... Essa non è diversa a Roma o ad Atene, non è diversa ora o in futuro: tutti i popoli invece in ogni tempo saranno retti da quest'unica legge eterna e immutabile; ed unico comune maestro, per così dire e sovrano di tutti sarà Dio; di questa legge egli solo è l'autore, l'interprete, il legislatore; e chi non gli obbedirà rinnegherà sé stesso, e rifiutando la sua natura di uomo, per ciò medesimo incorrerà nelle massime pene, anche se potrà essere sfuggito ad altre punizioni”.

Per questa ragione il diritto naturale è paradigma valutativo del diritto positivo, in primo luogo in relazione alla giustizia, alla verità e solo infine alla legittimità che per essere tale deve assolvere alle altre prime due cause.

Quando infatti, per una serie di principi, l’uomo vuole far a meno di questo diritto basilare, dopo uno spazio storico-temporale ciclico, lo jus naturale rientra di forza nel tempo storico. Esemplificando possiamo cominciare dalla selezione per la casta guerriera che attuavano gli spartani sacrificando i bambini “più deboli” dall’alto del Taigeto, ma che non servì a preservarli in quanto “casta”, e città furono distrutte come le altre culture micenee.

“I genitori non avevano diritto di allevare i figli, ma dovevano portarli in un luogo chiamato tesche, dove gli anziani esaminavano il bambino: se lo vedevano sano e robusto ne disponevano l'allevamento e gli assegnavano in anticipo una porzione di terreno demaniale; se invece lo trovavano gracile e malfatto, ordinavano che fosse gettato in una voragine del monte Taigeto, detta Apotete. Non conveniva infatti né alla polis né al bambino stesso che fosse lasciato crescere per restare sempre debole e dal  fisico infelice”.

I principi della razza ariana nel nazi-fascismo sono riconosciuti come i più grossi crimini contro l’umanità e rimarcati nel Processo di Norimberga, dove gli aguzzini nazisti si appellavano giustificandosi all’esecuzione di ordini che scaturivano da un diritto positivo.

A partire da questi insegnamenti fondamentali della legge naturale esaminati da Aristotele e rivalutati successivamente da san Tommaso, si possono dedurre o determinare tracce più concrete. Le sorgenti della legge naturale sono semina virtutum (semi delle virtù).

Le virtù etiche li espandono e consentono loro di concretizzarsi. Indicativo è, in questa visione, il legame tra facoltà psichiche e facoltà corporee, logica contemplativa e azione, ma anche che l’entità della legge è profondamente legata al fine. Fare il bene “conviene” all’uomo e fa parte della sua natura più intima. San Tommaso con la coscienza della Rivelazione cristiana è consapevole della fragilità umana dalle sue origini e la successiva corruzione che ne deriva e che cade sotto la stessa natura.

Questo filone nel Novecento viene valorizzato dal pensiero a struttura Personalista (E. Mounier - J. Maritain ecc.) tendente a considerare il comportamento umano e quindi la Persona umana come un fine e non mezzo e che l’esperienza morale sarà incompleta se non riferita all’oggettività della verità nel bene (legge naturale) sia alla soggettività comportamentale, l’intenzione e motivazione dell’atto hic et nunc.

Il do è quindi quel luogo che richiama all’eternità ogni azione umana: il passato, il presente e il futuro; lo spazio tempo e l’infinito.

Il tempo fisico nel senso che l’azione assume un valore lineare, una dimensione che indica un fine. Nel do c’è l’intenzione che nutre l’azione e l’essere persona, che per la sua intelligenza è collocata in una posizione superiore alla temporalità, infatti, è l’unico

essere consapevole del passare del tempo, peculiarità che lo rende conscio del passato e gli permette di anticipare, con previsioni, i tempi futuri con progetti e scelte30. Questo è un fondante motivo per vivere da guerrieri, da bushi.

 Tecnica del Bushi ed esperienza di vita-l’azione umana

Secondo Aristotele l’azione umana è prassi e ha in se stessa il fine regolato dalla ragione in quanto generata dalla persona che si trova nell’azione stessa con meccanismi fisiologici, psichici e affettivi. Alcuni fondamentali elementi costituenti l’azione sono inoltre la conoscenza del sé e l’intenzionalità amorevole. L’immanenza della persona nell’azione è quindi amore e conoscenza di sé come essere unico e irripetibile.

Nonostante le azioni automatiche fanno risparmiare molta energia psichica, in quanto nella loro mera ripetizione l’attenzione è disimpegnata, il pericolo dell’automatismo o routine, però, potrebbe far perdere di vista il significato profondo di ciò che stiamo facendo. Se non si corregge il proprio esercizio con la riflessione (meditazione) l’automatismo   tecnico   può   diventare   infestante,   apportando   rigidità   e   sclerosi comportamentale.  La  routine  provoca  mancanza  di  senso,  lacuna  e  noia  in  quanto l’azione stessa è svuotata della intenzione referente.

L’abitus, in senso aristotelico, non è infatti ciò che caratterizza l’azione esterna che può essere simile a quella ripetizione vacante, ma è riferito al senso interiore, la cosiddetta intenzione della coscienza. Esemplificando: la motivazione per la quale una persona compie un gesto di carità facendo un’offerta ad un povero, nella sua intenzionalità d’amore o solo per manifestare la sua falsa bontà ai testimoni, la conosce solo l’agente. Queste due differenti, ma fondamentali entità rendono quel medesimo movimento fisico di dare l’offerta una azione morale (virtù) o un esercizio del proprio ego (vizio).

Comunque l’azione intenzionale richiede intelligenza, volontà e conversazione interiore, interessi di fine esistenziale che costituiscono il motivo principale dello stesso agire.

La dimensione in cui la tecnica diviene esperienza e unicità di vita e l’intenzione, si concretizza mediante l’azione libera e la volontà. Anche quest’ultima per essere determinante e non fallimentare si realizza nell’autodominio, ossia nella conoscenza e nel possesso di sé. La medesima azione può essere compiuta allo stesso modo ma con una diversa intenzione solo quella che però è esercitata nella unicità di vita e nella verità si  svolge  e  vive  nel  do.  Nel  do  la  tecnica  viene  riempita  del  carattere  valoriale dell’amore.

La legge naturale, che promuove l’azione morale è scritta nel cuore dell’uomo ma a volte per fragilità l’uomo non riesce ad attuarla. E’ proprio in questa profondità del cuore umano che avviene la guerra dei bushi.

Quando la regola positiva o la scelta autodeterminante umana è contraria e prevale su quella naturale la Persona si allontana dalla sua dignità antropologica perdendo di vista il motivo della sua esistenza.

L’agire-una scelta di vita hic et nunc

Passiamo ora a definire la Persona Umana, a cosa tende e in che cosa si realizza pienamente per il suo massimo bene e per quello degli altri. Vediamo quindi quale è il do per la persona umana che vuole essere bushi, la via della verità in cui immettersi e combattere.

La persona umana non è legata solo alle diverse fasi dello sviluppo dell’io (freudiane) o anche solo attraverso una elaborazione dell’informazione per un problem solving (cognitivismo). Aristotele ci dice invece nel suo  pensiero, rielaborato dalla Rivelazione cristiana di san Tommaso d’Aquino, che per conoscere profondamente l’atto bisogna conoscere il suo oggetto o fine in quanto l’intenzione è vissuta nell’atto. Qui abbiamo un elemento fondamentale da evidenziare: anche nella finalità dell’atto possiamo cogliere un intenzione prima (Aristotele) che anche le scimmie in qualche misura possono cogliere in quanto fa riferimento all’oggetto, e si differenziano tra azioni fatte fine a se stesse con quelle di raggiungere per esempio del cibo che è l’oggetto diretto (esperienza immediata e istinto). La differenziazione tra l’agire e l’accadere consiste che nell’agire l’esperienza si realizza nel vissuto che il soggetto agente ha di se stesso come autore dell’atto (immanenza), ma essa è anche trascendente in quanto in quella esperienza la persona che agisce imprime un suo dinamismo  riferito  alla verità dell’essere.   Facciamo  un  esempio  che rispecchia un’azione  già  descritta  precedentemente  e  avvenuta  nel  film  “I  sette  samurai” oggetto di analisi in questo contesto. Il maestro Kambei non fa altro che applicare un principio fondamentale nell’Arte del Samurai quello dell’aiki (unione dello spirito o delle energie) applicandolo e rendendolo azione soggettiva e trascendente. Svuotando la propria figura di samurai Kambei si taglia il codino e si rade i capelli, fa passare e andare nel vuoto (schivando) la paura che all’improvviso lo assale per la pericolosa azione che va man mano delineandosi nella sua mente. Un’azione che mette in pericolo non solo la sua vita ma anche quella di innocenti. Le virtù esercitate in questo principio tecnico sono sicuramente l’umiltà, la pietà, la giustizia, il coraggio, la generosità, la carità ecc. Compiuto il fine oggettivo dell’azione, salvare la bambina, l’azione tecnica si fonde con l’intenzione e con la verità dell’azione morale in quanto essa si esercita verso un bene che trascende lo stesso attore, restituendo la vita alla bimba che viene riconsegnata a sua madre e ripristinando anche una giustizia sociale annullando, per causa di forza maggiore, il pericolo e il male che si stava perpetrando. In questa circostanza Kambei realizza appieno il significato del dono di se, gratuito, la stessa intenzione materna che però la madre del neonato rapito non avrebbe potuto realizzare per mancanza della conoscenza tecnica e della strategia per realizzare quel fine medesimo.

  Azione e relazione personale: la relazione come dono di sè

Se la persona umana avesse unicamente una sessualità biologica il non farne uso sarebbe sicuramente una mancanza.

La condizione sessuata implica però una trascendenza, dell’individuo umano nei confronti della specie che invece non accade negli animali. Nella natura animale la capacità generativa è l’atto più elevato che l’animale possa fare, è questa la sua perfezione finale.

Il perfezionamento della persona umana non va cercato nella potenza generativa bensì nella chiamata al dono di se che si può raggiungere sia nel matrimonio, anche in senso generativo sia anche in un’altra direzione: obblighi familiari,  problemi esistenziali, lavorativi, vocazionali per dedicarsi a Dio e agli altri.

Non  è  solo  la  generazione  biologica  a  essere  sorgente  d’integrazione  bensì  la donazione di se come uomo o come donna.

Il celibato quindi o il nubilato non escludono la relazione di maternità o paternità che è frutto di una maturità personale più che generativa e si può raggiungere nel matrimonio o in una relazione comunque di dono. In entrambe le predette situazione ci deve essere comunque un’apertura alla generazione che nel matrimonio è anche in senso biologico. Nel celibato o nubilato la generazione è puramente spirituale e affettiva, nei termini di dedicarsi all’altro come dono di se che è all’origine della paternità e maternità.

Mantenersi nei rapporti interpersonali su un piano di massima libertà interiore ed evitare che essi scivolino verso falese relazioni, aiuta ad adempiere il compito che la persona, nel matrimonio o in una semplice relazione di amicizia, è chiamato a svolgere, riportare  cioè  la  sessualità  l’affettività  e  l’amore  alla  loro  bellezza  primigenia,

scoprendo in questo percorso relazionale,  le trappole dell’egoismo,  dello sfruttamento dell’altro e le conseguenze che nascono da quest’ultime: la tristezza e la solitudine.

Nella mondo animale la capacità generativa è l’atto più elevato che l’animale possa compiere. La sua perfezione finale chiamata dagli antropologi la Via perfettibile nell’animale è la riproduzione il compimento dell’atto sessuale in quanto mantiene in vita la specie.

L’atto più alto della persona umana che è pura relazione non va cercato nella potenza generativa, ma nel dono di se, donarsi agli altri nella relazione personale è l’atto perfettibile della persona umana cioè l’atto che realizza pienamente la persona.

 L’azione morale radice delle virtù sociali

Queste Virtù dispongono la persona in una collettività ordinata attorno ad un bene comune che dovrebbe essere perseguito da tutti i membri in quanto appartenente a tutti. Il modo in cui ognuno abbia un ruolo attraverso il quale esercita il suo esercizio sociale a partire dalla potestas. I rappresentanti di quest’ultima sono infatti portati a promuovere il bene collettivo attraverso la loro autorità sia essa di competenza familiare che di governo politico. L’osservanza consiste dunque in quattro fondamentali atteggiamenti di cui la famiglia è prima portatrice:

  1. Pietà – prima virtù sociale in assoluto in quanto dipende da una relazione perfettiva e fa parte dell’essenza della filiazione divina, umana e verso la propria patria di appartenenza. Non si può essere buoni figli se non si esercita questa virtù. Lì dove si intessono le prime relazioni connesse a ruoli naturali come essere figlio essere genitore o fratello e sorella lì si nutre e cresce per essere emanata alla più ampia società, questa virtù, che anche nell’antichità non si fa difficoltà a trovare sia nella polis greca che nell’urbis romana.
  2. Obbedienza – essa nasce dall’inclinazione dell’uomo all’armonia sociale e al desiderio di aver accettato il proprio ruolo nella società. Anche questa prende il suo incipit nell’ambito familiare inserendosi nei ruoli della potestas e autoritas genitoriale.
  3. Onore – la potestas da sola non può regolamentare l’ubbidienza in quanto deve riconoscere in essa una stima e imitazione per coloro che ne sono modelli e che fondano il loro agire nella giustizia e nel bene collettivo a favore di quello personale. L’educazione a questa virtù restituisce nella libertà personale il riconoscimento del valor della potestas.
  4. Veracità – appartiene allo stesso campo semantico della verità e sincerità. Consiste nell’essere persona ad un comportamento non distorto dall’ipocrisia ma che rende evidente l’unicità di vita nelle parole e nelle scelte concrete.
  • Rivendicazione – è la virtù che porta a castigare le offese o il male commesso. Perché questa sia lecita deve riguardare un bene quello ad esempio di fermare il reiterarsi di atti commessi da una persona che persegue le sue intenzioni cattive. La rivendicazione deve essere vista e percepita nella relazione senza uno sbilanciamento in eccesso dell’azione correttiva ma equilibrata in modo che possa davvero assumere una reazione educante.
  1. Gratitudine – è la virtù che porta a riconoscere il bene ricevuto e a ripagarlo deliberatamente e ampliare e trasmettere questo bene nella gratuità anche agli altri.
  2. Liberalità – libertas è la virtù che porta a donare ciò che si ha non secondo un debito giuridico ma secondo un debito morale. Chiaramente essa implica sia la capacità di dare che quella di ricevere in una reciprocità armoniosa. 

Il concetto di unità nell’amore personale: corporeità e spirito, dall’Eros alla Caritas

La sessualità umana è l’architrave dell’umanizzazione sia dal punto di vista personale che sociale. In tutte le culture, la sessualità ha svolto un ruolo primario per la costruzione della società umana e nello stabilimento di norme civili e religiose (in modo particolare nell’ebraismo dove si paragona l’infedeltà d’Israele a Dio con l’adulterio).

Secondo Platone la sessualità è un’energia vitale capace di far spuntare le ali all’anima, portandola alle alture più sublimi o anche catapultarla nel basso della perversione. Se infatti la sessualità si presenta, da un lato come origine della vita, dell’eros e della donazione, che attraverso la fecondità trasmette la vita,  dall’altro emerge come una forza oscura che si impadronisce degli amanti facendoli diventare nemici di ogni legge umana o divina.

Di fronte a questa forza in grado di seminare vita e morte, l’uomo ha cercato di disciplinarla cercando di metterla al servizio della pace.

Questo amore nel vero senso del termine, è quella forza in grado di produrre una fusione appassionata non solo per un episodio occasionale, ma per una intera vita (finché morte non ci separi).

Il divenire uno e la comunione che ne consegue abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza e dell’amore declinato, dal desiderio sessuale all’ agape soprannaturale. La tendenza all’unione ritorna in tutte le descrizioni dell’amore.

La sessualità normale, rafforza il sentimento di unità e identità, stato che si definisce “armonia totale”, i poeti la cantano come una grande felicità, e con ragione e poiché il ritorno a questo stato di incoscienza è come un ritorno all’infanzia, anzi nel grembo materno, nelle acque piene di elementi creatori ancora allo stato incosciente. Tale stato è pura e innegabile esperienza del divino la cui onnipotenza spegne e annienta ogni elemento individuale, persino la tenace volontà di conservazione viene spezzata.

La relazione tra coniugi rimanendo per natura anche allo scopo biologico della riproduzione, tensione di natura collettiva dell’uomo, anche la relazione psicologica lo diviene, per cui questa relazione non potrà essere considerata di tipo individuale.  Ciò che avviene nell’amore tra le persone umane è che due divengono, per così dire uno, “in contrasto con l’unione simbiotica, l’amore maturo è unione a condizione di preservare la propria identità” per unirsi bisogna è necessario rimanere due.

C.S. Lewis nel suo testo “Le lettere di Berlicche”, rappresenta una lezione che Berlicche, un capo dei demoni, fa a altri diavoli meno esperti. Elaborando le sue argomentazioni presenta l’assioma della filosofia dell’inferno dicendo che: “Tutta la filosofia dell’inferno consiste nel riconoscimento dell’assioma che una cosa non è un’altra, e specialmente che un io non è un altro io, Il mio bene è mio bene, e il tuo è il tuo. Ciò che uno guadagna un altro lo perde. Perfino un oggetto inanimato è ciò che è, perché esclude dallo spazio che occupa tutti gli altri oggetti; se si espande, lo fa spingendo da una parte gli altri oggetti, oppure assorbendoli. E l’io fa la stessa cosa. Con le bestie l’assorbimento prende forma di cibarsi; per noi significa assorbire la volontà e la libertà da un io più debole in uno più forte. “Essere” significa essere in competizione”.

Poi Berlicche descrivendo il pensiero di Dio (che chiama il nemico) interpella la sua filosofia contraddittoria in quanto “ le cose sono molteplici e in qualche modo anche una sola. Il bene dell’uno tra gli io deve essere il bene dell’altro io. Egli chiama questa cosa impossibile, amore”.

E’ evidente come il bene comune, la comunione, l’unione dei corpi nell’amore possa essere impossibile anche nell’inferno terreno, proprio come Lewis descrive la lezione del diavolo.

Nell’elemento paradigmatico, della comunione d’amore, non vi è separazione tra eros e agape. Ma se ogni forma d’amore tende essenzialmente all’unione dove i soggetti rimangono diversi l’uno dall’altro, questa è realizzata in maniera unica nell’amore erotico e ancor più nella sua accezione più stretta di sessuale. Questo si determina anche per il fatto che l’uomo non vuole essere amato solo in senso altruistico ma vuole essere desiderato come persona, essere utile a quella relazione, non accetta di essere oggetto d’amore immotivato.

Eros è il vocabolo greco, adottato da tutte le lingue europee. La sua sfera di utilizzo la possiamo capire se analizziamo qualche opera di Platone. La simpatia che si accende per una bellezza corporale, l’inebriante follia divina (theia manìa), la forza che eleva alla contemplazione, tutto è chiamato eros.46 Sebbene sia evidente che la sessualità entra sempre in gioco nell’amore erotico, sebbene l’uomo sia sempre maschio e femmina su tutti i piani della vita individuale, fino allo stile delle attività intellettuale, che “una sola carne” nella definizione biblica sia riferita anche all’unione sessuale, è a tutti noto come può esistere un atto sessuale senza che vi sia amore, una sessualità “assoluta” può arrivare a bloccare l’amore anche quello erotico, alienando le stesse persone umane.

“Nell’amore erotico per essere nella verità dell’amore richiede una condizione “che io ami dall’essenza del mio essere, e senta l’altra persona nell’essenza del suo essere. Nell’essenza tutti gli esseri umani sono identici. Siamo tutti parte di uno; siamo uno. L’amore dovrebbe essere essenzialmente un atto di volontà, di decisione di unire la propria vita a quella di un’altra persona. Questo è in verità, ciò che di razionale v’è dietro il concetto di indissolubilità del matrimonio”.

I testi platonici affermano che l’amore erotico è qualcosa di affine al rapimento, all’estasi del poeta. Si è trasportati fuori dalla normalità e questa affinità si riscontra anche nell’innamoramento. E’ davanti alla bellezza che si accende l’amore erotico. Anche qui è bene chiarire che cosa sia “bello”. Esso è ciò che piace guardare o sentire e non può essere assolutamente relegata a categorie, la bellezza, in quanto è soggettivamente determinata. Pur assoggettandosi al mondo sensibile essa sfugge all’oggettivazione in quanto ogni persona viene rimandata a qualcosa che non è reperibile nel presente i quanto si presenta come promessa e non come compimento. Goethe coglie stupendamente il pensiero di Platone quando dice: “il bello non è tanto qualcosa che effettua, quanto qualcosa che promette”.

L’eros è un forza mediatrice che congiunge ciò che vi è di più basso e di più elevato nell’uomo ed unisce tra loro il naturale, il sensibile, l’etico e lo spirituale, una forza che impedisce che l’uno si separi dall’altro e che conserva tutte le forze dell’amore, dalla sessualità fino all’agape.

In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente, fascinazione per la grande promessa di felicità, nell'avvicinarsi poi all'altro si pone sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà esserci per l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono.

La caritas, non abolisce nulla di ciò che ci è possibile compiere con le nostre forze nell’amore e comprende in sé tutte le forme declinate dell’amore umano. La caritas è dominata sempre dall’astro della beatitudine risposta di questo immenso amore. La beatitudine infatti dona un senso di acquietamento ove si può riposare, non risiede in essa un oggettivo sentimento di felicità.

La quiete donata dalla beatitudine in risposta alla caritas è la meta finale del nostro amore. S.Tommaso afferma ancora:” La caritas … è un amore di Dio, col quale è amato come oggetto e origine della beatitudine”. La caritas è allora l’amore attraverso il quale possiamo riposare nella beatitudine divina, l’amore aperto al prossimo per godere insieme dello stesso dono e cogliere la straordinarietà irripetibile di ogni persona.

Ma allora il rapimento estatico nell’eros di due amanti cui abbiamo fatto riferimento, che possano dirsi: “E’ meraviglioso che tu esista”; cosa può avere in comune con una suora che cura con caritas un malato donandogli una speranza e che può utilizzare anche le stesse parole. Certamente non è semplice formulare un termine di paragone sulle due forme d’amore, in quanto la caritas può essere esercitata in ogni circostanza quotidiana di comportamento verso il prossimo, a differenza dell’eros. Ma possiamo anche dire che in ogni testo classico in cui si parla di queste argomentazioni si parla anche di un compimento perfettibile dell’uomo di ciò che possiede per natura.

Il portare a pienezza l’eros a caritas potrebbe allora significare voler guadagnare la propria eternità in modo naturale trasformandosi profondamente. Questo secondo sant’ Agostino può avvenire attraversando un processo di morte che ci porta a vedere nella caritas un fuoco poiché essa tutto consuma e trasforma in se stessa.

In Hagakure l’unità interiore e il pensiero “non-discriminante” sono considerate condizioni del valore e del coraggio del samurai.

Nel Bushi-do alla pari, la ricerca dell’uno può esistere solo nell’Amore donativo, come ci dimostra anche il grande regista Kurosawa.

  La fedeltà nella natura della persona umana: unione di Amore e Volontà

Certamente i condizionamenti sociali contingenti non aiutano a vivere una vita di coppia reale che molte volte viene falsificata in quanto la maturità psichica e la consapevolezza dell’unione trova un impedimento in quel contesto culturale.

Forse questa impossibilità apparente a realizzarsi nel matrimonio per due persone abbia un’altra verità che è quella della capacità naturale che la persona umana ha nella coniugalità.

Secondo questa naturalità, nonostante le difficoltà reali, nella persona umana esiste la capacità ad impegnarsi nell’unione indissolubile del matrimonio, unione per costruire qualcosa di buono e di bello insieme; “nella relazione interpersonale “l’unità di intenti “crea qualcosa di nuovo che non è più un “io” e un “tu” ma un noi” per la sussistenza del quale gli ego personali devono recedere ampiamente se non scomparire. Dalla relazione matrimoniale e le susseguenti relazioni familiari prese come paradigmi valoriali si emanano a livello sociale e si costituiscono le relazioni interpersonali in genere. Queste ultime come anche il matrimonio si incentrano in una costruzione falsata del loro rapporto diventando un fare cose senza un fondamento naturale, senza le radici che danno vita al rapporto e lo nutrono,  un ripiegamento egoistico chiuso alla vita che non genera felicità e gioia ed è condannato al fallimento.

Nella famiglia fondata sul matrimonio si forma l’essere umano. Il fatto che il matrimonio54  sia relazione tra persone, maschio e femmina, è fondato sul reciproco

consenso che i nubendi esprimono liberamente e personalmente e che nessuna potestà umana può supplire.

“…E dal momento che la persona umana non è riducibile ad una libertà che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e corporea determinata, l’esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza del quale si cade nel relativismo e nell’arbitrio”.

Una libertà surrogata relativa alle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche che travia completamente il significato di persona nella sua interezza. E’ ancora più interessante come nel medesimo documento s. Giovanni Paolo II delinea il vero significato della legge naturale, dice infatti:“…Essa si riferisce alla natura propria e originale dell’uomo, alla natura della persona umana, che è la persona stessa nell’unità di anima e di corpo, nell’unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine. La legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della persona umana. Pertanto essa non può essere concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita come l’ordine razionale secondo il quale l’uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo. Ad esempio, l’origine e il fondamento del dovere di rispettare la vita umana sono da trovare nella dignità propria della persona e non semplicemente nell’inclinazione naturale a conservare la propria vita fisica. Così la vita umana, pur essendo un bene fondamentale dell’uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene della persona che deve essere sempre affermata per se stessa: mentre è sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito, lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf Gv 15,13) per amore del prossimo o per testimonianza verso la verità. In realtà solo in riferimento alla persona umana nella sua totalità unificata, cioè anima che si esprime nel corpo e corpo  informato  da  uno  spirito  immortale,  si  può  leggere  il  significato  specificamente  umano  del corpo”.

Il samurai era legato anima e corpo al suo signore (daimyo), ma anche alla via che aveva scelto. La fedeltà non si fermava qua: il samurai era legato a chiunque decidesse di proteggere. Soprattutto, il legame verso i genitori era forte e saldo quasi quanto quello che aveva nei confronti di un signore. Un samurai era disposto a difendere con la morte sia i genitori che il suo signore.

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